Introduzione

    

Marina di Roma, Ostia Nuova–Nuova Ostia, Roma marittima, Lido di Roma, Ostia Lido: già questi diversi nomi, coniati per indicare la moderna città che si voleva fondare a seguito della bonifica dei terreni retrostanti, nella piana del Tevere, dà l’idea dei molti tentativi, alcuni riusciti, altri non andati a buon fine, di modificare e recuperare l’area dell’articolata foce del fiume e di restituire alla Capitale il suo affaccio sul Tirreno, come già nel lontano passato. Tentativi che, almeno parzialmente, sono attestati già dal Seicento, in termini di bonifica, ma che vedono nel primo Ottocento e poi nei decenni successivi, ancora sotto il Governo pontificio, specie durante il periodo di Pio IX, più decisi sviluppi e nuovi progetti.
Non è corretto, tuttavia, parlare di una nuova città, in qualche modo autonoma quale fu Ostia Antica, perché, come il volume curato da Micaela Antonucci, Luca Creti e Fabrizio Di Marco chiaramente spiega già a partire dalla Premessa e dai due saggi introduttivi, l’intento era quello di creare una “città nella città”, in altre parole, di sviluppare e prolungare organicamente Roma fino al mare, in una sorta di conurbazione, magari nei termini di quella “coda di cometa” di cui parlò, con innegabile e fortunato accento poetico, Gustavo Giovannoni in un suo memorabile discorso alla fine degli anni Trenta. Questa “coda” si sarebbe estesa fino al litorale, a partire dal corpo della città storica, nei suoi margini allora costituiti dalla zona della Basilica di San Paolo e poi dalla progettata espansione costituita dall’E42, il moderno quartiere EUR, con un’architettura piuttosto rada e leggera, inframezzata a consistenti presenze agricole, forestali e archeologiche. Va ricordato che, lungo la linea dell’antica costa in Età imperiale, la presenza di vestigia antiche è molto consistente e non contempla certo la sola area di scavo di Ostia Antica, tanto da costituire il secondo complesso archeologico, dopo quello centrale dei Fori–Colosseo–Palatino, di Roma.
Un tema, dunque, quanto mai ricco d’implicazioni, che è stato affrontato in occasione del convegno, i cui atti sono qui raccolti e arricchiti da ulteriori contributi, tenutosi nel 2016, esattamente nel centenario del primo Piano Regolatore di Ostia (1916), redatto proprio da Gustavo Giovannoni con Vincenzo Fasolo, Tullio Passarelli e Marcello Piacentini. La ricerca compiuta si è volutamente estesa oltre il periodo delle origini e quello d’oro, fra 1920 e 1940, scavalcando gli anni della Seconda Guerra Mondiale, che tanti danni arrecò alle architetture, molte delle quali affascinanti e di alto valore, di questo singolare “quartiere marino dell’Urbe”, per arrivare alla contemporaneità, con le valide iniziative dei sindaci Francesco Rutelli, soprattutto, ma anche Walter Veltroni e, diversamente, Gianni Alemanno e Ignazio Marino.
Proprio il Piano del 1916 mostra un approccio architettonico e urbanistico di tipo “ambientalista”, ispirato ai canoni delle più o meno contemporanee città–giardino, come quella denominata “Aniene” a Montesacro (Roma, 1920–1924), dove si riscontra l’apporto di professionisti operanti anche a Ostia, fra cui lo stesso Gustavo Giovannoni e Vincenzo Fasolo, fondato sul prevalente tipo edilizio del villino uni– e pluri–familiare, che prevedeva una consistente presenza di verde pubblico e privato e si traduceva in architetture improntate al “barocchetto romano” e a molteplici altre suggestioni (come quelle, per esempio, moresche, neomedievali). L’insieme era disciplinato da un rigoroso Regolamento Edilizio e da una Commissione di controllo che, diversamente da quanto accade oggi, in regime di esasperate quanto spesso inutili verifiche burocratico–formali, curava con attenzione anche la valenza artistica dei progetti, secondo una concezione, tutta da rimpiangere, di serio “decoro urbano” e, più tardi, per usare un termine caro a Marcello Piacentini, di “urbanità”, vale a dire di comprensione del valore del singolo edificio in relazione alla città. Anche gli aspetti botanici erano oggetto di studio e progettazione; per essi e per quelli architettonici si richiedevano viste prospettiche a colori ed elaborati utili a verificare l’effettiva armonizzazione con l’ambiente e tra i singoli edifici.
Tale vocazione residenziale e di loisir della nuova Ostia non era scollegata da altre due istanze, una industriale e una legata all’idea, a lungo perseguita, di costruire un grande porto per creare lo sbocco sul Mediterraneo della Capitale, come nell’antichità. Successivamente, nel periodo fascista, prevalse, lo si è precisato nel volume, la vocazione “vacanziera” del nuovo centro, sottolineata anche dalla costruzione negli anni 1927–1928 della via del Mare. La nuova arteria automobilistica fu subito intesa come un invito alle classi più abbienti, in grado di permettersi l’uso del veicolo privato, in alternativa alla preesistente ferrovia, destinata alle classi più popolari, che tuttavia fu rafforzata.
Comunque nel nuovo Piano Regolatore, adottato nel 1929, si abbandonano l’idea e l’effetto “borgata” e si progetta un vero e proprio brano di città, a scacchiera, mentre al “villino” subentrano la “palazzina”, come a Roma e, nelle zone più interne, gli edifici “intensivi”. D’altra parte tale dura distinzione di censo è riscontrabile in tutta la serie di elaborazioni urbanistiche (1926, 1929, 1933, 1936) che lavoravano per tipi edilizi differenziati, da quelli più economici a quelli più di lusso, sostanzialmente separati e dislocati sul territorio in base al suo pregio. Non a caso, nei progetti piacentiniani per Castelfusano (1932–1933) si riconosce il carattere signorile da riservare a quell’area, il carattere popolare di Ostia e quello popolarissimo di Fiumicino. La prima, raggiungibile solo per automobile e volutamente non servita dalla ferrovia. Atteggiamento in qualche modo proseguito nel dopoguerra con l’urbanizzazione “esclusiva” di Casalpalocco.
Un approccio ideologicamente diverso si nota nelle realizzazioni degli ultimi decenni, dagli anni Settanta in poi, attraverso cui si cerca di mettere ordine allo sprawl diffuso che, complice la speculazione edilizia, incominciava a occupare disordinatamente ogni spazio libero fra Roma e il mare, soprattutto in prossimità dei tracciati stradali e delle fermate della ferrovia (che oggi si intende giustamente trasformare in linea metropolitana); ciò attraverso edificazioni intensive, anche di buon disegno, non prive però di un certo utopismo, le quali non hanno risolto il problema per una loro forte componente di astrazione, incapace di cogliere le esigenze, pratiche, psicologiche e anche, in certo senso, “culturali”, delle persone che avrebbero abitato i nuovi complessi. La monofunzionalità abitativa, lo sperimentalismo “teorico”, l’attenzione alla quantità più che, come in passato, alla qualità del costruito, portarono, contro le migliori intenzioni, a risultati, oggi ben evidenti, di crescente marginalizzazione sociale.
In questo senso il contributo sulle residenze per l’Alitalia (1965–1970), progettate dallo Studio Valle di Roma, illustra un approccio diverso e positivo, fondato su un’attenzione sociologica prima ancora che architettonica, rivolta, appunto, alla “persona”, nella ricerca di una “familiarità” percettiva e abitativa delle nuove edificazioni. Ciò tramite la costruzione di un contesto non alienante e tenendo ben presente la necessità di un corretto rapporto fra individuo e collettività. Sul piano architettonico la progettazione e la stessa esecuzione, attenta a finiture, colori e materiali, pur nella sua piena modernità, risente delle suggestioni proprie delle dimensioni abitative “storiche”, quindi di memorie del passato. Così che il complesso si presenta come “un frammento urbano minore”, con tutti i pregi che gli possono essere riconosciuti, realizzato tramite una sapiente articolazione delle piante e dei volumi, dei rapporti fra pieni e vuoti, in un gioco plastico che dinamizza i fronti non solo per ragioni estetiche, ma per assicurare intimità alle abitazioni, soleggiamento invernale e ombreggiamento estivo, facile mobilità pedonale e, si ripete, un rassicurante carattere di “tradizionalità” nella ricerca di un autentico “benessere” abitativo. Il successo dell’intervento è sottolineato anche dal suo stato di conservazione attuale, nell’insieme buono, a fronte di molti altri casi di assoluto abbandono e conseguente degrado. Questo è un caso, piuttosto raro negli anni del secondo Novecento, di ottima qualità architettonica e di sensibilità urbana, ma si pensi anche alla chiesa di Nostra Signora di Bonaria, progettata da Francesco Berarducci, Giorgio Monaco e Giuseppe Rinaldi, a seguito del concorso bandito nel 1969, e anche ai due interessantissimi e piuttosto recenti casi di restauro di stabilimenti balneari, La Vecchia Pineta (del 1933) e il Kursaal (inaugurato nel 1950, opera di Attilio Lapadula e Pier Luigi Nervi), ampiamente trattati nel volume.
Se si va indietro nel tempo, agli anni fra le due Guerre, prima in Età liberale e poi fascista, si può vedere come la costruzione di Ostia consenta di ripercorrere lo sviluppo della moderna architettura italiana, nelle sue varie declinazioni più o meno storicistiche e moderniste, di marca anche nord–europea, grazie a una sequenza di opere mediamente d’alta qualità e, in certi casi, di eccezionale interesse, criticamente vagliate dai diversi autori — troppo numerosi per essere qui ricordati individualmente — tramite un apposito lavoro di ricerca archivistica associata alla lettura diretta delle architetture e a un sempre stimolante inquadramento nel milieu culturale del tempo. Fra queste realizzazioni: il monumentale Stabilimento balneare Roma, aperto nel 1924 e distrutto dalla guerra, opera di Giovanni Battista Milani, che mescolava caratteri di modernità, per l’ardito uso in ambiente marino del calcestruzzo armato, e, nello spettacolare locale della rotonda, di citazioni dalle terme imperiali romane; il modernismo futuristico, per la sua geometria, il carattere polimaterico e policromatico, dell’Ufficio Postale di Angiolo Mazzoni, a metà degli anni Trenta, e altri lavori di Luigi Moretti, Adalberto Libera — i famosi villini — e Giuseppe Vaccaro; la chiesa Regina Pacis di Giulio Magni (1919–1930), acutamente indagata sotto il profilo critico fino a rilevarne, con originalità, il carattere di fondo più “schiettamente novecentesco”, legato a un residuo accademismo, pur senza che venga mai attuata una rottura col passato; le moderniste, razionali e quasi “teutoniche”, come sono indicate nel volume, opere di Ignazio Guidi, fra cui la Scuola Fratelli Garrone del 1933; la Casa del Balilla di Paolo Benadusi, impostata su principi sia autarchici e di “moderata monumentalità”, secondo la lezione di Enrico Del Debbio, che di piena funzionalità; per converso, l’opera per l’Istituto Case Popolari di Camillo Palmerini, solo superficialmente giudicabile come ottusa e nostalgica, ma tranquillamente visionaria e di schietta tradizione romana, sulla base di quanto indicava Vincenzo Fasolo, il quale a Ostia aveva progettato la Colonia Marina Vittorio Emanuele III, del 1926; ma anche le stazioni della Ferrovia Roma–Lido di Marcello Piacentini, il protagonista del rinnovamento del linguaggio edilizio romano, concepite nel 1919.
Ritorna spesso il richiamo al cruciale passaggio “modernizzatore” tra fine anni Venti e inizi anni Trenta, che vede nel 1931, com’è scritto nel volume, il perfetto baricentro cronologico fra le due concezioni, “storicistiche” e “ambientiste”, ancora sensibili alla linea professata dall’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura a Roma, da una parte, moderniste e razionaliste, dall’altra. Non a caso è l’anno in cui Marcello Piacentini ripensa radicalmente il suo progetto per la chiesa di Cristo Re in Roma. A Ostia ben si riconosce l’attività di questo “laboratorio del moderno” nel quale si esprime in prevalenza la Scuola romana, ricca di giovani talenti laureatisi nella Scuola, poi Facoltà di Architettura di Roma, controllata sempre più da Marcello Piacentini e sempre meno da Gustavo Giovannoni.
Un amaro contributo introduttivo ricorda l’oscillante situazione di Ostia, fra cadute e riprese, la disordinata crescita urbana, il suo carattere di strana periferia senza qualità pur con la grande risorsa del mare, le speranze di rinascita suscitate soprattutto dalle iniziative e realizzazioni del sindaco Rutelli; ma una nota positiva e propositiva si può rintracciare in uno degli ultimi contributi, Densificare Demolire Riconfigurare, che illustra le idee sviluppate nel 2015 dal DIAP (il Dipartimento di Architettura e Progetto della “Sapienza”), in occasione di una iniziativa, che ha visto coinvolte 25 Università di tutto il mondo, intesa, per l’area romana, a mettere in discussione il concetto stesso di periferia, a proporre una lettura “continua” e non “discreta” della città, una Roma policentrica e “porosa”, diversa da quella tradizionalmente caratterizzata da un forte centro attrattore e tutto intorno da parti labili. In questo confronto, un importante settore di Ostia è stato studiato dal DIAP con idee innovative che, muovendo dalla menzionata ricomposizione dell’ambito archeologico dell’antica linea di costa entro un sistema attestato sulla via Severiana, da Portus a Castelfusano, mettono in gioco organicamente, secondo una strategia complessiva, acque, patrimonio boschivo e ambientale, preesistenze archeologiche appunto, agricoltura urbana, attività puntuali e, in certi casi, temporanee di riciclo dei rifiuti da demolizioni edilizie e non solo, rinaturalizzazione delle dune, mobilità su ferro e mobilità “dolce”, specie in bicicletta, favorita dalla natura pianeggiante del terreno, infine la creazione del Parco urbano delle Saline. Ciò per ripensare la parte più squalificata del patrimonio edilizio, demolire quando necessario e riconfigurare secondo un disegno ragionato e sensibile il territorio, garantendo anche quel passaggio “osmotico” fra città e mare che ha costituito, fin dall’origine, uno dei punti critici della città.
Una trattazione a parte, ma tutt’altro che scollegata, è rappresentata dall’ultima sezione del volume, dedicata al tema delle sistemazioni arboree di Ostia Antica, modificatesi nel corso di vari decenni per i cambiamenti di gusto intervenuti nel campo delle discipline giardinistiche, ma anche in ragione dei continui ampliamenti degli scavi e dei restauri che si susseguirono, con maggiore consistenza nel ventennio precedente la Seconda Guerra Mondiale. Soprattutto sul finire degli anni Trenta si sviluppa l’ipotesi, sostenuta dal Governo fascista per ragioni di propaganda, di uno stretto legame degli scavi, e quindi della città antica,
con l’iniziativa dell’E42. Città da mostrare, come attestazione di nobile antichità. Fra il 1938 e il 1942 gli scavi, o meglio “sterri”, sono spinti con grande celerità, mentre a Michele Busiri Vici l’Ente EUR conferisce l’incarico di studiare le sistemazioni a verde dell’area, sotto il coordinamento del soprintendente Guido Calza (1924–1946). Nello stesso tempo quest’ultimo conduce alcuni interventi ricostruttivi, come quello del Teatro (dal 1926 al 1939, su progetto di Raffaele de Vico), considerati eccessivi ma fortemente apprezzati, per le medesime ragioni propagandistiche, dal Regime, che favorì l’organizzazione di spettacoli prestigiosi, arricchiti da scenografie affidate ad artisti quali Duilio Cambellotti, e l’attività dell’Istituto del Dramma Antico. A tali restauri, considerati scientificamente infondati, si oppongono autorevoli studiosi stranieri come Armin von Gerkan, ma anche, coraggiosamente, lo stesso Gustavo Giovannoni (che, in precedenza, coerentemente con la sua visione “ambientista” si era opposto, con valide ragioni, al progetto, poi realizzato, della Passeggiata Archeologica a Roma). Inoltre la stessa scelta delle essenze arboree subisce una sorta di filtro ideologico, una selezione di specie “autoctone” e tradizionali, come il pino a ombrello, il cipresso, l’alloro, già apprezzati da Giosuè Carducci, Gabriele D’Annunzio e soprattutto da Giacomo Boni; ma, in questa lettura romanizzante, il Pinus Pinea, il comune pino da pinoli, diventa prima Pino Italico e poi Pino Romano, celebrato altresì in musica e simbolo anch’esso della politica neo–imperiale del Regime fascista. La Mostra del Giardino Italiano a Firenze, del 1931, celebra il glorioso ritorno, anche nell’arte giardinistica, allo “stile nazionale”.
A parte queste considerazioni d’ordine politico–ideologico, si nota la fioritura di un intenso rapporto fra archeologia e giardini, non solo a Ostia o a Roma ma osservabile, per esempio, nella suggestiva sistemazione arborea di Aquileia. L’azione di Busiri Vici è caratterizzata da un approccio fortemente poetico che, come si può leggere, non cede mai alla replica filologica dei giardini antichi (allora meglio compresi grazie ai moderni esiti di scavo delle domus pompeiane), poiché egli considera sconveniente l’accostamento della loro ricostituita perfezione allo stato di rovina della città antica, preferendo quindi reinterpretarli poeticamente. Segue una sua personale posizione, fuori dagli schemi ma aggiornata, attenta anche al filone “rurale” della Campagna romana. Con questo atteggiamento, nei disegni di progetto che sono ampiamente illustrati nel volume, essenzialmente prospettive a colori, oltre ai consueti elaborati in pianta che specificano una per una le essenze, accompagna l’opera di Guido Calza di “reintegrazione” e “sistemazione” delle rovine, anticipando già l’idea di “parco archeologico” frutto di una progettazione coordinata e unitaria. Per esso prevede tre fasce concentriche di vegetazione: fuori dalle antiche mura, con piante di alto fusto, prevalentemente pini; entro le mura ma non nelle aree di scavo, con piante da frutto (come olivi, agrumi, peri, meli); nelle aree scavate con giardini di rose, viole e piante simili. Vede appunto il giardino, come egli stesso scrive, rivelando accenti crociani, quale “opera lirica”, ispirata al “tipo mediterraneo”.
L’esperienza di Ostia Antica, nelle sue mutevoli modalità di progettazione, dal tempo del soprintendente Dante Vaglieri, a inizio secolo, passando per la proposta, non realizzata, dell’onorevole Dario Lupi (1923) di un Parco della Rimembranza che prevedeva la messa a dimora di 7000 pini, a ricordo degli altrettanti romani morti nel corso delle Prima Guerra Mondiale, fino a Guido Calza, si sviluppa parallelamente a quella architettonica e urbana di Ostia; si pensi al modo scalato di disporre villini, palazzine e costruzioni intensive, per garantire la massima visibilità del mare, da una parte, e a quella, assolutamente analoga, di piante d’alto fusto, poi di media altezza e infine di piante basse e arbusti, per schermare da un lato e per aprire la vista sugli scavi dall’altro. È interessante poi notare come lo stesso tipo edilizio intensivo sia oggetto di una lettura politica e nazionalistica, per la quale si sostiene l’ipotesi di Guido Calza circa l’esistenza di un’edilizia abitativa intensiva di età romana, antica intuizione di matrice italiana, quindi, e non moderna acquisizione di marca nord–europea. Fra Ostia Antica e la nuova Ostia l’intenso scambio avviene anche sul piano più pratico e materiale di una utilizzazione delle terre di scavo per le bonifiche e i livellamenti necessari alla nuova città.
Per quanto concerne la progettazione, un elemento comune alle esperienze di moderna architettura a Ostia Nuova, e di sistemazione botanica degli scavi di Ostia Antica, da Vincenzo Fasolo a Ignazio Guidi, da Giovanni Battista Milani e Camillo Palmerini ad Angiolo Mazzoni e Adalberto Libera, come pure a Michele Busiri Vici, è un modo di progettare fortemente “qualitativo”, attento ai dettagli, sempre definiti
minutamente, ricco d’intelligenza intuitiva e riflessiva, di meditate valutazioni, sostanzialmente ancora “artigianale” e “personale”, adattabile e flessibile, rispettoso delle poche ed essenziali norme urbanistiche e igieniche che regolavano allora il campo dell’edilizia. Una condizione che si riconosce, per esempio, anche nella coeva progettazione degli edifici della Città Universitaria di Roma, quando solo si pensi all’impegno di Gio Ponti per l’Istituto di Matematica, definito fin nei suoi arredi fissi e mobili.
Davvero il volume affronta, da punti di vista diversi ma tutti convergenti in un comune intento di comprensione, da tradursi auspicabilmente in una sana e consapevole operatività, la realtà di Ostia, dai primi concreti progetti di bonifica (1857) all’avvio effettivo del recupero del litorale (1884), alla prosecuzione della via Ostiense fino al mare (1907), agli iniziali lavori per il lungomare (1915), ai primi stabilimenti balneari (1916), alla posa della prima pietra del porto marittimo, mai realizzato (1920), all’apertura della ferrovia (1924) e dell’autostrada (1928), ricordando giustamente il grande impegno profuso, per decenni, dall’ingegnere e senatore Paolo Orlando. Tutto questo parallelamente ai tentativi, di fine Ottocento, di portare, per così dire, il mare e il porto nella stessa Roma, raddrizzando e correggendo il corso del Tevere e la sua stessa profondità, al fine di creare un duplice scalo, marittimo e fluviale, presso la Basilica di San Paolo fuori le mura, a servizio della zona industriale in corso di realizzazione proprio lungo l’asse della via Ostiense, comprendente anche il quartiere residenziale di Testaccio e, successivamente, la borgata denominata “La Garbatella”.
Come si è visto, sono poi affrontati gli sviluppi degli anni successivi, i diversi ripensamenti sul ruolo stesso di Ostia, i momenti di splendore e di crisi, purtroppo anche odierna, alcune interessanti proposte di riscatto. In tutto ciò costante è la presenza silenziosa degli scavi che, con la recente istituzione del Parco Archeologico di Ostia Antica, si propongono ora come una risorsa e un motore culturale potente, in relazione anche alle altre presenze antiche, come la Villa di Plinio o la necropoli di Porto. Insomma, ne emerge un quadro denso e vissuto, ricco di opere, idee e persone, in una parola di storia e di prospettive future, per questo capace di coinvolgere anche il lettore non specialista.
Giovanni Carbonara