Anna Melograni: Premessa (dal fascicolo 144)

    

La Bibbia di Borso d’Este è senza ombra di dubbio il codice miniato rinascimentale più studiato al mondo, insieme alle Très Riches Heures del duca Jean de Berry. Chiunque abbia avuto la fortuna di ammirarlo ne comprende il motivo, che deriva dalla sua bellezza e complessità. Sorge tuttavia legittima la domanda se di questo manoscritto, esaminato in ogni dettaglio, resti ancora qualcosa che non sia stato detto. Fortunatamente sì, in quanto continua a svelare i suoi segreti, grazie anche al fatto che la ricerca si aggiorna continuamente e, per analizzarlo, sono state applicate nuove metodologie scientifiche.
Lo studio specifico della Bibbia, che a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha reso noti innumervoli aspetti della storia del codice grazie all’attenzione dedicatale da Federica Toniolo, è partito proprio dalle pagine del Bollettino d’Arte nel 1995 (se si esclude un precedente intervento di G. Mariani Canova). Anche per questo motivo la rivista ha accettato con piacere l’idea di accogliere i risultati di inedite ricerche. Taddeo Crivelli: il maggior miniatore della Bibbia di Borso d’Este si intitolava il contributo della Toniolo di quattordici anni fa, nel quale venivano pubblicati i primi dati della tesi di dottorato discussa nel 1993,3) poi confluiti in parte nella riedizione ragionata del volume di H. J. Hermann sulla Miniatura estense (1994), e in parte nel Commentario al facsimile della Bibbia pubblicato, come quasi tutte le novità editoriali sulla Corte estense di Ferrara uscite in quel periodo, dalla casa editrice Franco Cosimo Panini di Modena (1997). È dell’anno seguente (1998) la grande mostra su La Miniatura a Ferrara di Palazzo Schifanoia, di cui la Toniolo curava il catalogo e due saggi specifici nei quali tornava a parlare della Bibbia di Borso e del ruolo di Taddeo Crivelli. A questi lavori hanno fatto seguito le singole voci degli artisti ferraresi e padani, intervenuti nella decorazione della Bibbia, curate dalla studiosa per il Dizionario biografico dei miniatori (2004); il recente intervento sulla miniatura ferrarese nel catalogo della mostra di Palazzo dei Diamanti (2007); e infine l’ultimo studio sull’argomento ancora in corso di stampa.
Il materiale raccolto in questo fascicolo nasce dalla giornata di studi organizzata a Modena nel 2005 da un docente di Chimica Fisica dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, Pietro Baraldi, il quale — dopo essere stato incaricato dalla Biblioteca Estense Universitaria di svolgere alcune analisi sulla Bibbia — riuniva colleghi di discipline diverse con lo scopo di discutere i risultati di un nuovo approccio metodologico a carattere scientifico. Il fascicolo del Bollettino d’Arte non rende conto di tutti gli interventi del 2005 e quindi non si può definire il volume degli “Atti” di quell’incontro, dal momento che alcune persone, per motivi diversi tra loro, non hanno presentato la propria relazione scritta. Si comprende, sfogliando i titoli degli interventi, che in quell’occasione l’esame della Bibbia di Borso è stato affrontato utilizzando settori della ricerca raramente applicati ai codici miniati. I nove interventi in questione sono stati divisi in due gruppi tematici: il primo, relativo ai dati quantitativi e statistici, affronta un’analisi dei costi del volume, mettendoli a confronto con prodotti artistici coevi, ed esamina le scelte rappresentative di emblemi, stemmi, piante ed animali. Il secondo dà conto dei risultati delle analisi scientifiche condotte sul codice.
Scendendo più nel dettaglio, vale la pena di sottolineare alcune novità emerse dalla ricerca. L’articolo di Anna Melograni ricostruisce il costo delle diverse fasi produttive del codice, partendo da un esame dettagliato dei documenti resi noti in precedenza da F. Toniolo e A. Franceschini. In aggiunta, individua in un pagamento poco conosciuto del 1491 il nome dell’orefice che eseguì i fermagli e le borchie in argento dorato recanti lo stemma di Ercole I, ancora oggi visibili sulla legatura in velluto rosso dei due volumi. Parallelamente, ma in modo del tutto autonomo, le analisi in fluorescenza X eseguite da Pietro Moioli e Claudio Seccaroni (discusse nel penultimo contributo della serie) hanno confermato l’originalità dei fermagli quattrocenteschi e mostrato un’evidente differenza compositiva e tecnica tra questi e quelli moderni applicati alla legatura del 1939. L’esame dei costi della Bibbia di Borso ha evidenziato, tra le altre cose che,  se da un lato il valore medio della decorazione di una pagina della Bibbia (pari a circa 3 lire e 15 soldi marchesani) era piuttosto basso rispetto a quello di altri codici, al contrario, la cifra finale spesa da Borso per far eseguire l’opera (circa 2.000 ducati) era talmente alta da trovare possibili paragoni solo con intere collezioni librarie o cicli pittorici. La pittura era infatti nel campo delle Arti quattrocentesche la meno costosa, sia per il tipo di materiali impiegati, sia per la tecnica di lavorazione. Viceversa, i codici miniati erano manufatti artistici dispensiosi e complessi a causa della moltiplicità di maestranze coinvolte nel ciclo produttivo.
L’articolo di Angelo Spaggiari ripercorre l’evoluzione dell’araldica estense, non limitatamente agli anni del ducato di Borso, presentando stemmi per lo più noti, ad eccezione di quello concesso da Paolo II insieme al titolo di Duca di Ferrara (1471), che tuttavia Borso non ebbe modo di usare in quanto morì quattro mesi dopo il rientro da Roma.
Dello stemma è tuttavia sopravvissuto un esamplare che qui si presenta per la prima volta: esso compare nella bolla papale con cui, l’anno seguente, Sisto IV confermò ad Ercole I il titolo (1472), ma che il neo–duca decise di non usare. A dieci anni dalla conclusione dell’opera, i cinque stemmi del vero e unico committente vennero affiancati (ma a volte anche sostituiti) da ventisette nuovi motivi araldici del successore e il capolavoro di Borso divenne la Bibbia di Ercole I.
L’esame degli emblemi rappresentati nel codice, affidato a Paola Di Pietro Lombardi che si era in precedenza occupata dell’argomento, ha dimostrato, sulla base del numero di volte in cui ricorre ciascuna impresa, quale fosse la scala di importanza data loro da Borso. Tra tutti primeggia quello del paraduro: uno steccato cui è appesa una zucca di tipo allungato detta “viulina”, scelto come elemento indicatore dell’innalzamento delle acque e quindi simbolo della bonifica estense. Questo dato è interessante anche alla luce del giusto riconoscimento dell’emblema nel dipinto dell’‘Adorazione dei pastori’ di Andrea Mantegna (New York, Metropolitan Museum), eseguito forse per Borso, di certo in rapporto alla corte ferrarese, la cui datazione è ancora oggi discussa.
Ancora poco chiara risulta invece un’altra impresa amata da Borso: quella del cesto rovesciato, già interpretata come una possibile nassa per intrappolare i pesci o una gabbia per animali da cortile, che Ansaloni, Iotti e Mari suggeriscono sia un’arnia per le api. Come nel caso degli stemmi, il passaggio della Bibbia da Borso a Ercole I vide l’inserimento nelle miniature del codice del nuovo emblema con l’anello diamantato a scapito di alcuni precedenti imprese borsiane oggi scomparse.
I successivi due articoli del fascicolo trattano rispettivamente del bestiario e della piante illustrati nella Bibbia. Quello che sorprende confrontando le due ricerche è quanto la perfetta definizione anatomica degli animali contrasti con la minore accuratezza delle piante e dei fiori — esaminati da Roberta Baroni Fornasiero ed Elisabetta Sgarbi — che, il più delle volte, se non illustrano l’episodio biblico (così ad esempio la vite, il grano, l’orzo, i cipressi e l’ulivo), hanno una funzione puramente ornamentale. Una delle poche eccezioni è costituita dalle foglie di aloe usate come festoni sul margine del foglio. Nonostante l’abbondanza di elementi floreali sparsi nel codice, non si può dire che essi siano realizzati con la precisione naturalistica o l’interesse botanico dimostrato da altri artisti in questo campo. Si pensi ad esempio a Pietro da Pavia nel codice della Naturalis Historia di Plinio della Biblioteca Ambrosiana (ms. E 24 inf.), fortemente influenzato dalla tradizione dei Tacuina sanitatis; Pisanello e collaboratori in alcuni disegni oggi al Louvre; e Michelino da Besozzo nel Libro d’ore della Pierpont Morgan Library di New York (ms. M 944), dove ogni carta del codice è dedicata ad una diversa specie fioreale, dimostrando un’approfondita conoscenza degli erbari medievali, ma soprattutto una ripresa diretta della natura. Né è ancora penetrata nella Bibbia di Borso la conoscenza di modelli nordici, che invece verranno scelti da Matteo da Milano per ornare il Breviario di Ercole I, il Libro d’ore di Alfonso I e il Messale del Cardinale Ippolito d’Este, trasformando i margini delle carte pergamenacee in coloriti intrecci di perle, gemme e boccioli derivanti dal repertorio classico e dalle decorazioni naturalistiche dei codici fiamminghi.
La ricerca di Ivano Ansaloni, Mirko Iotti e Marisa Mari sul bestiario della Bibbia è una delle rivelazioni del recente simposio, anche se la passione dei membri della famiglia d’Este per la caccia, gli animali esotici e quelli domestici presenti nel Barco era risaputa. In aggiunta, questo interesse si evince dalle spese annotate nei registri di pagamento riguardanti terreni boschivi per la caccia al fagiano, la costruzione di gabbie per pappagalli, quaglie, usignoli ed ermellini, nonché l’acquisto di cavalli barbari per il palio.
L’articolo sul bestiario si avvale di un’Appendice che elenca e quantifica le 1.456 specie animali presenti nel codice. Data l’impossibilità di riprodurli diffusamente, si è deciso di selezionare in apposite tavole le tre classi meglio rappresentate (cani, farfalle e uccelli), in modo da offrire un ampio campione delle varietà proposte che, nel caso dei volatili, sorprenderà per la qualità e la quantità. Non sempre però gli esemplari sono riconoscibili, vuoi perché l’evoluzione della specie ne ha modificato la razza (vedi ad esempio i cani di cui si identificano solo bracchi, levrieri, segugi e con meno certezza mastini), vuoi perché l’estinzione di molte specie animali consente oggi di individuarne una minoranza: così, ad esempio, tra i lepidotteri gli unici cui si riesca a dare un nome sono la vanessa del cardo e il podalirio. Vale la pena di osservare che questi ultimi sono raffigurati con identiche caratteristiche nel ‘Ritratto di giovane fanciulla di casa d’Este’ di Pisanello, dove si trova una terza tipologia, sconosciuta (in alto a destra), che ricorre con peculiarità simili anche nelle pagine del codice estense. Difficile dire se le restanti farfalle siano opera della fantasia dei miniatori, ma in un paio di casi non sembrerebbe.
La riconoscibilità delle specie animali presenti nella Bibbia consente di affermare che i miniatori avessero una conoscenza diretta di molti di esse. Inoltre, è stata giustamente sottolineata l’affinità con alcuni disegni di ambito pisanelliano serviti da modello, che in alcuni casi sono stati riutilizzati in punti diversi del codice con minime variazioni. La loro qualità grafica ha permesso alla Toniolo di isolare nella Bibbia la mano di un miniatore specializzato, al quale è stato dato il nome di “Maestro degli animali”. Per altro, tra i disegni preparatori di Pisanello esposti al Louvre nella mostra del 1996, da cui derivano alcune riprese del codice estense, ce ne sono almeno un paio attribuiti ad un artista attivo a Ferrara intorno al 1450. Il debito dei miniatori della Bibbia verso Pisanello fu considerevole e i molteplici rimandi ai suoi disegni lo dimostrano; tuttavia, il progetto di Borso di creare un codice liturgico a carattere enciclopedico — capace di «preziosità tardogotiche e concretezze rinascimentali», commenterà Mario Salmi — trova le sue radici, da un lato, nella Bibbia francese commissionata dal padre, Niccolo III, a Belbello da Pavia; dall’altro, nell’apertura culturale con cui il suo predecessore, Leonello, aveva trasformato e modernizzato la corte ferrarese.

La seconda parte degli studi sulla Bibbia di Borso, dedicata alle indagini scientifiche, si apre con il saggio di Paolo Bensi, che ripercorre la storia delle analisi condotte sui codici miniati a partire da quelle “distruttive” del lontano Ottocento. Il contributo inserisce i risultati emersi a proposito del codice estense in un panorama più vasto, con approfondimenti sui pigmenti, metalli, leganti e vernici usati dai miniatori, dei quali fornisce un’ampia bibliografia.
Lo studio di Alessia Andreotti, Ilaria Bonaduce, Maria Perla Colombini e Ilaria Degano si concentra su due campioni pittorici, prelevati dalle pieghe delle cc. 43v–44r del primo volume, al fine di individuarne la caratterizzazione del colorante organico e del legante pittorico. L’analisi del primo microcampione di colore rosso ha escluso, sulla base del confronto del suo profilo cromotografico, la presenza di coloranti diversi dal kermes (dato confermato dalle indagini di Baraldi sulla lacca rossa). L’analisi del secondo microcampione di colore giallo ha evidenziato invece l’uso dell’uovo come legante pittorico.
Le indagini non distruttive in fluorescenza X eseguite da Pietro Moioli e Claudio Seccaroni hanno riguardato sia i pigmenti utilizzati dai miniatori, sia le diverse legature della Bibbia. I risultati ottenuti dall’esame delle trentadue zone selezionate del primo volume e delle venticinque zone del secondo hanno rivelato la presenza nelle miniature di numerosi elementi chimici: calcio, ferro, rame, oro mercurio, piombo, argento, stagno, antimonio e bario. Ciò ha consentito di approfondire le nostre conoscenze sui pigmenti impiegati dagli artisti (quali ad esempio l’uso del giallo di piombo e stagno) o sulla foglia metallica, e hanno evidenziato la presenza di cinabro negli strati preparatori delle dorature. Inoltre, l’esame delle legature ha confermato l’impiego di argento dorato nelle applicazioni metalliche più antiche, per altro attestato dai documenti. Infine, due tabelle sintetizzano i dati emersi da queste diverse analisi XRF.
L’ultimo articolo, a firma di Pietro Baraldi, ha dato conto, con l’apporto di ingrandimenti al microscopio digitale e grafici, dei risultati ottenuti dalle indagini in spettroscopia raman eseguite su quattro specifiche carte del codice (vol. I, cc. 5v–6r e cc. 43v–44r). Esse hanno interessato, oltre all’inchiostro metallogallico, diversi pigmenti: malachite, lacca rossa a base di verzino e di kermes, cinabro, minio, giallo di piombo e stagno, orpimento, biacca, e nero di carbone. A differenza delle indagini in fluorescenza X che non lo consentono, queste analisi hanno permesso di distinguere nelle diverse campiture blu i lapislazzuli impiegati nella lazurite (o blu oltremare), l’azzurrite (il famoso «azuro todesco» o «d’Alemagna» citato nei documenti quattrocenteschi) e in rari casi l’indaco.
Trattandosi dei primi studi scientifici fatti a campione su un numero di codici ancora esiguo, potrà sembrare che i risultati emersi siano poca cosa, ma al contrario essi confermano dati relativi alla doratura o ai pigmenti sinora noti solo in via teorica grazie alla trattatistica medievale. Inoltre, come dimostra il confronto con le indagini condotte sul Graduale 558 del Museo di San Marco a Firenze, laddove le informazioni possono rivelarsi poco chiare (nel nostro caso, ad esempio, è stato possibile individuare la presenza di kermes non riscontrato nel graduale fiorentino), un aiuto alla comprensione del campione esaminato viene proprio dai risultati di indagini scientifiche condotte con analoghe metodologie su altri codici miniati. In chiusura l’auspicio che, esistendo oggi analisi di tipo non invasivo, sia possibile avvalersi di tali indagini sempre più spesso.